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Corriere di Gela | Il film di Mel Gibson, la Passione dei dubbi
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notizia del 23/04/2004 messa in rete alle 09:26:10
Il film di Mel Gibson, la Passione dei dubbi

L’aspetto secondo me più antiartistico e discutibile del film di Mel Gibson è l’evidente intenzione di sottoporre lo spettatore a una pressione emotiva e patetica‚ scioccante e a tratti intollerabile, al fine soprattutto di ossessionarlo e incantarlo con un messaggio propagandistico tipico di chi vuole a tutti i costi imporre agli altri il proprio fanatismo religioso. E, si sa, quando il fanatico è anche abile nell’uso delle tecniche mediatiche (in questo caso il cinema e i suoi effetti speciali ormai raffinatissimi), la miscela è esplosiva e pericolosa. Lo spettatore non smaliziato sul piano critico e culturale, in questo modo, è portato a vivere in maniera vittimistica la propria fede, nel senso che la passione di Cristo è percepita non solo senza contesto (essa infatti occupa tutto il suo spazio emotivo e cognitivo in un film così fortemente espressionista) ma anche come esclusivo appannaggio dell’istituzione ecclesiastica che su di essa si fonda e vive.
Ben altro, invece, sarebbe lo sguardo sulla vicenda qualora si tenesse conto, ad esempio, di questi due fatti: 1) la tortura e la crocifissione, in epoca romana, hanno riguardato personaggi portatori di messaggi ideologici‚ certamente più terreni ma non meno dignitosi di quelli di Gesù (si pensi a Spartaco, non a caso riletto in chiave a tratti cristologica nel celebre Spartacus di Stanley Kubrick); 2) torture inenarrabili, spesso seguite dal rogo, sono state inflitte nel corso della storia dalla stessa Chiesa, addirittura nel nome di Dio, a personaggi il cui insegnamento aveva, sull’ordine pubblico‚ del rispettivo tempo, conseguenze non più preoccupanti di quelle che aveva l’insegnamento di Gesù (penso ad esempio a Jan Hus e a Giordano Bruno).
Anch’io, dunque, pur essendo un laico insensibile alle implicazioni religiose ed escatologiche della storia di Gesù, ho passato due ore di disagio al cinema, accresciuto dalle reazioni delle persone in sala, molte delle quali, culturalmente ed emotivamente sprovvedute, sono state letteralmente devastate dalle immagini del film. Alcuni addirittura sembravano assistere per la prima volta nella loro vita alla “passione” di Cristo, come se la più nota e trita delle storie che siano state raccontate e tramandate gli si rivelasse come una novità terribile e dolorosa (eppure era il Venerdì Santo!).
Concordo con chi non ha visto nel film alcuna forzatura antisemita. Per mesi siamo stati martellati da questa storia francamente ridicola, e pensare che nel mondo esistano persone che perdano il loro tempo a discutere di queste sciocchezze mi procura una tristezza infinita. Se qualcuno nel film è stato trattato male (dal punto di vista della “immagine”), questo è senza dubbio l’esercito romano, i cui soldati per la gran parte sembrano solo degli aguzzini spietati e beoni, buoni solo a torturare sadicamente il poverocristo di turno. Per non parlare di Barabba, rappresentato come un pazzo mostruoso e inebetito, quando invece era un “resistente” che durante una sedizione aveva ucciso qualche soldato romano (cfr. Marco 15,7), e gli evangelisti non a caso lo trattano con un certo rispetto, anche perché il suo nome completo, Gesù Barabba (con l’aramaico Barabbà=figlio del padre), ne fa una sorta di fratello minore e speculare – anche se umano, troppo umano – di Gesù.
Se mettere in scena quello che è chiaramente raccontato nei Vangeli è un’operazione antisemita, che cosa dovremmo dire allora del settimo canto del Para-diso, in cui Dante, per chiarire la liceità della vendetta (di Tito) della vendetta (di Dio sull’Uomo per mano degli ebrei), si avventura in una sorta di fondazione a priori della colpa metafisica del popolo ebraico? Non dovremmo più leggere Dante? Le polemiche scoppiate su questo aspetto del film sono l’esempio perfetto di come oggi il “politically correct” sia spesso la maschera dietro cui si nasconde la più totale ignoranza sull’abc della storia della cultura.
Personalmente mi ha convinto molto l’impianto narrativo del film, anche se i risultati mi sembrano inferiori alle intenzioni. Gibson sa che non ha senso raccontare ancora una volta la vicenda più famosa del mondo, e così si concentra su quello che avviene a partire dall’arresto al Getsemani, ritornando con dei flashback rapidi ed essenziali, spesso rallentati, e comunque motivati da più o meno convincenti associazioni di idee, ad alcuni dei momenti precedenti della vita di Gesù (l’infanzia, il lavoro di falegname, il discorso della Montagna, l’ultima cena, ecc.). In questo modo ottiene l’effetto voluto: tutto il film dilata ossessivamente il momento della “passione” e lo spettatore è immerso in un delirio di violenza atroce e sanguinolenta che ha l’effetto di turbarlo profondamente. Certo, a volte si ha l’impressione di un eccessivo compiacimento nel mostrare lo strazio delle carni, ma “quaranta colpi meno uno” (2 Corinzi 11, 24) di flagellum (un bastone di cuoio rafforzato con palline di piombo e uncini di metallo) sicuramente non la-sciano il corpo come siamo abituati a vedere nell’iconografia sacra della crocifissione, nei santini o in altre pellicole del passato. Per non parlare dei chiodi alle mani e ai piedi: oserei dire che in questo caso Gibson è stato persino avaro col sangue...

Molto discutibili, invece, appaiono certe scelte “espressive” di regia: mentre ho trovato geniale la carogna di cavallo puzzolente e piena di mosche che assiste con un ghigno al suicidio di Giuda e al quale fornisce la corda per impiccarsi (a me ha fatto venire in mente il simbolismo del demoniaco “Signore delle mosche” di William Golding), mi è sembrata ridicola quella goccia che cade dal cielo e ripresa dal punto di vista delle nuvole. D’accordo, è Dio che lacrima sul Figlio, ma, santa pazienza, è un virtuosismo visivo‚ che stona tremendamente col tono drammatico del contesto. Il terremoto che spacca il tempio, poi, con quei crolli di pietre ciclopiche di cartapesta, ricorda molto le analoghe scene dei vecchi polpettoni cinematografici di terz’ordine su Maciste e Sansone.
Mi chiedo invece come mai Gibson, che ha riversato sul film un gusto per l’orrido che a volte ricorda il Dracula di Francis Ford Coppola (come nella scena in cui a Giuda appare una specie di lupo mannaro dopo aver visto in faccia Gesù che penzola dal muro), non abbia sentito la necessità di rappresentare, oltre ai crolli sismici, una scena macabra e molto cinematografica‚ che sarebbe stata perfetta nel suo film e che Matteo 27, 50-53 descrive stupendamente proprio con quell’economia espressiva e quella “rapidità” narrativa che Italo Calvino, nelle sue Lezioni americane, raccomandava al nuovo millennio: “Gesù intanto, dopo aver di nuovo gridato a gran voce, spirò. Ed ecco, il velo del tempio si scisse in due parti dall’alto al basso, la terra fu scossa e le rocce si spaccarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi che riposavano, risuscitarono ed usciti dai sepolcri, dopo la sua resurrezione entrarono nella città santa e si manifestarono a molti”.


Autore : Marco Trainito

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