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Corriere di Gela | L’amarezza di Camilleri
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notizia del 16/10/2004 messa in rete alle 21:34:02

L’amarezza di Camilleri

A. Hai letto l’ultima avventura del Commissario Montalbano?
B. Sì, ma non mi è piaciuta.
A. Molto bene. Visto che l’abbiamo letta entrambi e che ce l’abbiamo tra le mani, proviamo ad applicare il metodo dell’osservazione meticolosa e della deduzione intelligente. Che cos’hai da dire contro La pazienza del ragno? Che cosa noti?
B. Noto che è sempre la stessa musica: niente di nuovo sotto il sole. E poi noto che l’autore di questo dialogo ci sta usando per citare qualcuno. Stiamo scimmiottando altri dialoghi, credo.
A. Beh, sì, ad esempio l’inizio del Dialogo sul metodo di Paul Feyerabend…
B. … e l’“Indagine preliminare in forma di dialogo” di Fruttero & Lucentini premessa a una delle edizioni italiane de Il mastino dei Baskerville, cioè il terzo romanzo di Conan Doyle dedicato a Sherlock Holmes. Non credi?
A. Elementare, Watson. Ma è qui che ti volevo: Camilleri sa benissimo che per certi versi deve pagare un tributo alla serialità, e del resto i lettori stanno al gioco. Ricordi cosa dicevano a tal proposito Fruttero & Lucentini? I consumatori abituali di Sherlock Holmes non si annoiavano a ritrovarlo sempre identico a se stesso, anzi ne godevano: "e la delizia suprema è quando l’eroe sembra cambiato, ma poi si scopre che non era vero, che era solo ‘per finta’. È un rapporto affettuoso".
B. Sento odore di fregatura dialettica. Dove vuoi arrivare?
A. Voglio arrivare a farti ammettere la grande astuzia di Camilleri, il quale fa continuamente i conti con Conan Doyle. Egli vuol portare i suoi lettori più attenti alla delizia opposta: il mondo dell’eroe non sembra cambiato, ma poi si scopre che l’eroe è cambiato. Catarella continua a sbattere la porta quando entra e a parlare una lingua assurda; Mimì è il solito “fimminaro”, anche se si è sposato; la “zita” Livia e la “cammarera” Adelina continuano a evitarsi e a detestarsi tacitamente; il Questore Bonetti-Alderighi è sempre il burocrate-superiore un po’ tonto per ruolo istituzionale e il suo untuoso ed eternamente democristiano capo di gabinetto, il dottor Lattes, è sempre “Lattes e Mieles” (anzi, ora semplicemente “Latte e Miele”, come apprendiamo a p. 189); ecc. Ma Montalbano è diverso: ha scatti di commozione, di paura, di banale saggezza senile (ma altamente se ne frega), perché la ferita alla spalla ereditata dal precedente episodio (quel Giro di boa che rappresenta davvero un “giro di boa” per il carattere dell’eroe e per lo stesso Camilleri) lo ha portato vicino alla morte e la morte stessa gli si è presentata sotto l’aspetto della consunta signora Giulia, circondata da un tanfo di medicine, di escrementi, di sudore, di malattia, di vomito, di pus, di cancrena, come è detto a p. 251.
B. D’accordo, Montalbano non è Holmes: ma questo lo sanno tutti. Holmes è tutto d’un pezzo, è un blocco glaciale di intelligenza deduttiva (anzi abduttiva, come sostiene a ragione Eco), è misogino, è cocainomane (sconvolgente, a tal proposito, l’incipit de Il segno dei quattro); mentre Montalbano è umano, pasticcione, acuto quanto basta, comprensivo, monogamo, e si fa cucinare dalla madre di un ladro di polli che lui stesso ogni tanto mette dentro. E con questo?
A. Non è una questione così banale, perché se Montalbano non è Holmes (come lui stesso ammette a p. 227, allorché non riesce a trovare a casa l’oggetto holmesiano che contraddistingue lo stereotipo del perfetto detective, cioè la lente d’ingrandimento), allora sarà e vuole essere qualcun altro. Ed è della massima importanza capire chi vuole essere Montalbano, perché in tal modo scopriremo che in Camilleri il “giallo” è un puro espediente di genere per parlare d’altro.
B. Ho capito, vuoi arrivare all’abate Vella. In effetti, devo ammettere che la p. 239 ha colpito anche me. Anzi, se devo essere sincero, è l’unica cosa di questo romanzo che mi ha dato, come dire, un’emozione culturale.
A. Bene, vedo che sei di palato fine. Ma rifletti: cosa significa quel riferimento al Consiglio d’Egitto? Intendo dire, al di là dell’ennesimo omaggio all’amatissimo Sciascia.
B. Significa che Montalbano, poiché sta per togliersi un peso dalla coscienza facendo sapere al dottor Mistretta e a Susanna che lui ha capito tutto, che ha visto la ragnatela geniale che loro hanno saputo tessere nel loro “teatro” del sequestro ed è pronto a mantenere pietosamente il segreto, si sente finalmente “riposato, sereno, affrancato”, per poi rendersi conto che questi tre aggettivi che gli sono venuti in mente provengono da un episodio preciso del libro tanto amato, cioè da quella “straordinaria pagina” 122 “della prima edizione del 1966” (tra parentesi, cito alla lettera per segnalarti una svista: la prima edizione è del 1963, e comunque la pagina si trova nell’ottavo capitolo della parte terza) in cui l’abate Vella, prima di andare a rivelare a monsignor Airoldi che il famoso codice arabo è una sua geniale falsificazione e impostura (cosa che avrebbe sconvolto la sua vita, facendolo finire in carcere), si rilassa con un bagno e un caffè, due cose rare per quei tempi (fine ’700) e per quei luoghi (Palermo). E così il commissario fa come l’abate Vella, aggiungendo alla doccia e al caffè un bel cambio di biancheria, una cravatta seria e una mangiata pantagruelica di pesce nella trattoria di fiducia. C’è altro, secondo te?
A. Eccome. Questo passo, a un primo livello di lettura, è un semplice ammiccamento intertestuale, peraltro frequente in Camilleri (pensa ad esempio a come, ne L’odore della notte, Montalbano capisce che sta rivivendo un racconto di Faulkner letto molti anni prima), ma a un secondo livello, diciamo metalinguistico o metaletterario, è una vera e propria dichiarazione di poetica, un vero e proprio programma di impegno letterario e civile in questa nuova Italia della destra imprenditoriale al potere. Camilleri vuole essere il nuovo Sciascia, non il nuovo Conan Doyle. Più scanzonato, forse, ma non meno incisivo, non meno incazzato.
B. Spiegati meglio.
A. Vedi, egli con questo romanzo ha praticamente messo le carte in tavola, rendendo esplicito ciò che era già implicito nei testi precedenti. Il giallo è un pretesto, un dispositivo narrativo che serve a esprimere qualcosa di profondamente attuale: il disagio, l’umore nero suscitatogli dal momento storico che stiamo attraversando, dall’Italia berlusconiana, in cui sembrano ritornare, amplificati dalla sfacciataggine mediatica, i peggiori incubi della prima Repubblica. E lo rivela il fatto che questo romanzo è un giallo doppiamente finto: è finto innanzi tutto perché è un giallo senza il morto (cioè senza il fatto che tradizionalmente mette in moto il meccanismo investigativo), dato che si tratta solo di un rapimento; ed è finto soprattutto perché il rapimento è una finzione, una simulazione di rapimento, una messinscena, un teatro, una tela di ragno tessuta per vendetta, una vendetta che i buoni, sconvolti dall’odio, mettono in atto per colpire il cattivo, l’intrallazzista ingegner Peruzzo, cioè l’esponente tipico della nuova classe imprenditoriale coccolata e cooptata dal nuovo ordine politico con la compiacenza di certe leggi, di certi avvocati e di certi funzionari dello Stato (pensa all’insistenza sul suo essere in odore di una candidatura con Forza Italia, cioè la Dc del nuovo secolo, almeno in Sicilia). E la vendetta è condotta con la stessa arma del potere che essa vuole colpire: l’arma della manipolazione mediatica dell’immagine, l’arma che usa l’apparire al posto dell’essere, il lifting al posto della verità. L’ingegner Peruzzo sarà perduto non tanto per quello che ha fatto, ma per quello che si riesce a far credere che abbia fatto. E qui l’analogia con Il Consiglio d’Egitto si approfondisce ulteriormente, perché così come l’abate Vella si serve di un’impostura, di un imbroglio filologico, per smascherare l’impostura e l’imbroglio storico, politico e sociale su cui si regge l’ordine anarchico-feudale della distribuzione patrimoniale e del sistema di privilegi nobiliari della Sicilia borbonica, allo stesso modo Susanna e il dottor Mistretta si servono di un finto rapimento per mettere a nudo i loschi meccanismi affaristici e le complicità politico-giuridiche su cui si regge e prospera la nuova classe imprenditoriale che in Italia è diventata forza egemone e che ha a Palazzo Chigi il suo più emblematico rappresentante.
B. Vuoi dire che è questa la chiave di lettura per il Camilleri degli ultimi anni? Intendi così, ad esempio, tutta quella tirata sui fatti di Genova durante il famigerato G8 all’inizio del Giro di boa? In effetti lì Montalbano stava quasi per dare le dimissioni per la vergogna di essere un poliziotto, per la vergogna, cioè, di appartenere allo stesso corpo che si macchiò dell’infamia della scuola Diaz… A. Precisamente. E non dimenticare che in mezzo c’è stato quel terribile romanzo storico sul fascismo, La presa di Macallè, in cui lo sdegno per la dittatura è espresso da Camilleri con toni così cupi da rasentare il furore e la ferocia.
B. Questa volta sono d’accordo. Quel libro l’ho trovato straziante, dietro il grottesco e la ‘priapata’ picaresca: forse, oltre ad essere il libro di Camilleri più pieno di vastasate, è anche il più amaro e carico di pietas per la stupidità umana che si manifesta sotto le dittature arroganti e guerrafondaie e che ci mette un attimo a ribaltarsi in tragedia assurda.
A. E non ci vedi analogie con la più scottante attualità nazionale e internazionale?
B. Devo dire che ho perso?


Autore : Marco Trainito

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