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Corriere di Gela | Una lezione dagli Usa
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notizia del 11/11/2012 messa in rete alle 00:18:45

Una lezione dagli Usa

Gli Usa hanno confermato il democratico Barack Obama alla carica di presidente. I sondaggi davano un testa a testa con il candidato repubblicano Romney, ma non è stato così. Obama ha conquistato 332 grandi elettori contro i 206 dell'avversario. E' altrettanto vero, però, che a differenza del 2008 Obama ha preso 9 milioni di voti in meno. Una vittoria, dunque, netta ma tutt'altro che plebiscitaria, anzi. Sostanzialmente il consenso nel paese è spaccato in due tronconi con prevalenza per il primo presidente di colore della storia repubblicana statunitense.

Non a caso, se i democratici sono in maggioranza al Senato, al Congresso prevalgono i repubblicani. Eppure tutto ciò non consiglia Romney a recriminare alcunché o a campare scuse e quant'altro, congratulandosi invece e da subito, sia pubblicamente che privatamente, con il vincitore a cui augura un buon lavoro per il bene del paese. Obama incassa e puntualmente tende la mano a Romney invitandolo a lavorare insieme. Un qualcosa che fa degli Usa una democrazia, con i suoi pregi e difetti, compiuta. Un qualcosa che dalle nostre parte suona a dir poco strano, per non dire alieno.

Basti pensare all'ultima tornata elettorale che ha catturato l'attenzione dei media nazionali: vale a dire le Regionali in Sicilia. All'indomani del voto che ha sancito l'elezione di Crocetta a Presidente dell'isola da parte dei siciliani, maggior risalto è stato dato alla circostanza che vede lo stesso "rappresentare" solo il 30% di neanche la metà degli aventi diritto al voto che si sono effettivamente recati alle urne, seguita dall'altra circostanza (con altrettanta ed immancabile coda polemica) che non lo vede godere di una maggioranza precostituita all'Ars. Laddove cioè un Presidente di una cinquantina di stati, eletto "indirettamente" dal popolo (attraverso cioè i "grandi elettori"), all'indomani del voto è univocamente considerato il presidente di tutti, un qualcosa cioè che nemmeno l'acerrimo avversario del giorno prima, pur in forza di un consenso che arriva quasi alla metà dei statunitensi e rappresentativo della maggioranza di un ramo del parlamento, si permette minimamente di mettere in discussione, figuriamoci contestare; in un'isola del mediterraneo, per contro, un presidente eletto "direttamente" dal popolo, all'indomani del voto viene additato come espressione solo di una piccola minoranza (con chiara volontà a delegittimarlo), costretto a ricorrere a losche pratiche compromissorie per avere una sponda, spacciata per assolutamente necessaria e vitale, da parte dell'assemblea legislativa. Quando in realtà, proprio in virtù dell'investitura popolare diretta che lo dovrebbe legittimare nella sua azione di governo, il Presidente della Regione non ha bisogno di una mozione di fiducia parlamentare. L'Ars può sfiduciare il Presidente e costringerlo alle dimissioni ma con lui si scioglierebbe la stessa assemblea: non a caso dopo 4 governi, pur in minoranza per mesi, Lombardo ha galleggiato fino a dimettersi mentre la mozione di sfiducia è rimasta nel cassetto.

Due approcci, come si può agevolmente notare, diametralmente opposti. Se i cow-boys anno pensato bene di sostituire pistolettate e duelli con le regole di una democrazia rappresentativa di tipo presidenziale (che assicuri una sintesi alla canalizzazione federale del potere), ereditando e mettendo in pratica il pragmatismo di matrice anglosassone che guarda al metodo democratico (la maggioranza non è un fine, ma un mezzo. Il fine è deliberare, cioè decidere ed andare avanti, nel bene e nel male, ), che associ la rappresentanza politica (con divieto di mandato imperativo) al lo storico self government (autogoverno) delle comunità di base, la grande cultura di questo stivale peninsulare del vecchio continente reitera a rincorrrere il valore democratico, conntorcendosi sulla sua valenza e significato (per il quale la maggioranza rimane comunque un qualcosa che non supera le divisioni e non mette d'accordo tutti) nonostante oltre mezzo secolo di pratica e prassi democratica. Eppure anche nella prima repubblica parlamentare, quella per la quale il governo deve avere la fiducia dell'organo che lo elegge (il parlamento per l'appunto) e dalla quale (a costituzione invariata) non siamo mai di fatto usciti, specie per mentalità, non pochi sono stati i governi minoritari di andreottiana memoria che nulla avevano a che vedere con le alleanze presentate agli elettori in vista del voto. Ed è quanto accade ancor oggi, anche all'indomani di responsi “bulgari” esitati dalle urne.


Autore : Filippo Guzzardi

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